Le caratteristiche di un copywriter di successo includono: curiosità ossessiva per prodotti, persone, e pubblicità. Il senso dell'umorismo. L'abitudine al duro lavoro. L'abilità di scrivere una prosa interessante per la stampa e un dialogo naturale per la televisione. L'abilità di pensare visivamente. Le pubblicità dipendono più dalle immagini che dalle parole.
- David Ogilvy, Ogilvy on Advertising -
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In un recente post sull'etnocentrismo e il relativismo culturale abbiamo esaminato alcune delle differenze tra i due approcci: oggi discuteremo invece delle differenze osservate nel caso in cui questi approcci vengano adottati in contesti di marketing e/o vendite internazionali (nota: il seguente materiale è incluso nei corsi "An Introduction to Intercultural Communication" e "Psychographic Segmentation: The Importance of Cultural Values In Global Marketing And Sales", temporaneamente disponibili solo in inglese).
"Non sono affatto interessato all'immortalità, ma solo al gusto del tè."
- Lu T’ung -
Nel 2003 Unilever China - che si era affacciata al mercato cinese del tè nel 1992 - si stava preparando per affrontare una nuova sfida: vendere bustine di tè verde a clienti che all'epoca non erano propensi ad accettare tale novità.
La signora Wang Hui, un'impiegata di Unilever (proprietaria del marchio Lipton) intervistata all'epoca dal South China Morning Post, affermò che "Tradizionalmente ai cinesi piace il tè verde in forma di foglie, poichécredono che la qualità del tè in bustina non sia buona".
Due anni dopo, l'ex agenzia pubblicitaria J. Walter Thompson (attualmente "Wunderman Thompson") lanciò una campagna pubblicitaria che mirava a enfatizzare l'identità e i valori nazionali della Cina: come mostrato negli esempi seguenti, non solo la bustina di tè non era visibile nelle immagini, ma il tè che scorreva dalla tazza formava immagini che assomigliavano ad elementi chiave della cultura cinese come montagne e fiori.
(Fonte immagini: https://www.topys.cn/article/870)
Dodici anni più tardi China Daily USA ha confermato che Unilever ha continuato ad espandersi in Cina, e "ha firmato accordi con i governi delle province di Guizhou e Anhui per portare avanti progetti di sviluppo sostenibile del tè".
Anche se questa particolare campagna non è stata l'unica ragione per cui Unilever è riuscita nell’arduo compito di vendere bustine di tè verde ai consumatori cinesi, il messaggio - adattato per piacere a diversi segmenti di clienti -, è stato ben accolto e ha contribuito al successo generale dell'iniziativa commerciale.
[Nota: per quanto riguarda la segmentazione dei clienti, come evidenziato da Santander Trade, "La base dei consumatori cinesi è composta da persone relativamente giovani (tra i 20 e i 35 anni): generalmente istruiti, tendono a risparmiare meno, spendono di più nel tempo libero rispetto ai loro genitori, fanno sempre più acquisti online, danno priorità alla qualità piuttosto che ai prezzi bassi [la bustina di tè è stata percepita come più igienica e più sicura per il consumo rispetto alle foglie di tè tradizionali]. Le aree di maggior consumo sono concentrate nelle grandi città come Pechino, Shanghai, Shenzhen e altre aree urbane cinesi con alto reddito pro capite e alto potere d'acquisto", mentre, secondo GMA (un'agenzia di marketing e pubblicità digitale con sede a Shanghai), "i consumatori cinesi, e anche la nuova generazione, hanno un senso di orgoglio nazionale e sarebbe un errore per qualsiasi marca pensare di trascurare tradizioni e culture precedenti”.].
La campagna Unilever si rivolgeva quindi a consumatori relativamente giovani, a coloro vivevano in aree urbane e che avrebbero presumibilmente apprezzato la comodità di una bustina da tè (l'articolo di SCMP citato in precedenza affermava che "La maggior parte dei cinesi ama preparare il tè verde lentamente, con foglie e acqua bollita. Ma un numero crescente di consumatori usa le bustine perché sono veloci, convenienti, e si adattano alla velocità della vita urbana, come gli spaghetti e il caffè istantanei e i pranzi a sacco", pur continuando ad attribuire valore alla tradizione e all'identità nazionale cinese.].
"Ho solo due desideri", ha detto Jean. "Il primo è per un caffè forte, e il secondo è per un caffè più forte."
- Scott Lynch, The Republic of Thieves -
Durante un viaggio in Israele nel 1998, il CEO di Starbucks Howard Schultz ordinò una pessima tazza di caffè all’hotel King David, e immediatamente pensò che il paese avrebbe dovuto essere educato al gusto del caffè di buona qualità. "La gente sentirà la differenza nel caffè di Starbucks", dichiarò all'epoca. Dopo una lunga e complicata ricerca di un partner locale, nel 2001 Starbucks aprì finalmente la prima delle sei sedi previste a Tel Aviv: due anni e -6 milioni di dollari dopo, i punti vendita furono chiusi e il piano di conquista del mercato israeliano abbandonato.
Cosa andò storto nel tentativo di portare il frappuccino in Terra Santa?
Poco sapeva Schultz delle abitudini e dei gusti dei suoi nuovi clienti: mentre il caffè che aveva preso al King David poteva essere cattivo, "Uno studio di mercato ha stimato che 500 nuovi negozi di caffè avevano aperto in Israele nei tre anni precedenti la visita di Schultz.", E "una cosa che avevano in comune era che avevano tutti un ottimo caffè, un buon espresso, un buon cappuccino, relativamente forte, soprattutto rispetto a quello a cui sono abituati gli americani". Oltretutto, come dichiarato in tempi piú recenti da un giornalista di Haaretz secondo cui “il caffè filtro americano standard sa di acqua calda dal sapore debole", "In Israele, le offerte dei caffè italiani come l'espresso e il macchiato coesistono con il forte e saporito caffè turco fatto semplicemente infondendo macine di caffè in acqua calda e lasciandole depositare in 'fango' sul fondo della tazza".
Gusto del caffè a prescindere, un dettaglio fondamentale che a Schultz sfuggí fu che i clienti israeliani preferivano bere il loro caffè seduti, mangiando qualcosa, chiacchierando con gli amici. Il caffè da asporto metteva loro fretta e li faceva sentire ospiti non graditi, pertanto, dopo aver provato Starbucks la prima volta, non si trasformavano in clienti abituali:
"Ancora più rara è la cultura americana del caffè da asporto. Piuttosto che per l’abitudine di camminare con il loro caffè in una tazza di carta, gli israeliani, specialmente gli abitanti di Tel Aviv, sono noti per sedersi con la loro tazza di espresso in ceramica e non muoversi per ore - prendendosi tutto il tempo necessario per aggiornarsi, parlare di politica, o far crescere la loro startup. La cultura dei caffè di Tel Aviv è così diffusa che Yedioth Ahronoth, un importante quotidiano, ha indagato sul perché così tanti residenti della città sembrano oziare nei caffè invece di lavorare".
(*) “Glocalizzazione”, un concetto che combina le parole "globalizzazione" e "localizzazione", significa che "per produrre beni per un mercato di consumatori diversi da quelli soliti, è necessario per qualsiasi produttore adattare in qualche modo l’offerta in modo che essa prenda in considerazione valori e preferenze del pubblico locale". (R. Robertson, 1994)
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FONTI
Barnea, A. (2011). "Lack of peripheral vision – How Starbucks failed in Israel". African Journal of Marketing Management, vol.3, 78-88
Hopkins, Claude C. (1960). "Scientific Advertising ". New York: Bell
Kalnins, A., & Stroock, L. (2011). "Pouring Israel into a Starbucks cup" [Electronic version]. Cornell Hospitality Quarterly, 52(2), 135-143 - http://scholarship.sha.cornell.edu/articles/226/
Ogilvy, D. (2011). "Ogilvy on advertising". London: Prion
Online: https://tlv1.fm/business/2016/08/15/why-starbucks-failed-in-israel/
Online: https://www.scmp.com/article/424251/lipton-hopes-bag-china-tea-market
Online: http://usa.chinadaily.com.cn/epaper/2017-06/07/content_29654613.htm
Online: https://www.haaretz.com/israel-news/business/why-you-wont-find-starbucks-in-israel-1.5407403
Online: https://www.marketingtochina.com/chinese-consumers-behaviors-you-need-to-know-to-succeed-in-china/
Online: https://santandertrade.com/en/portal/analyse-markets/china/reaching-the-consumers
Robertson, Roland (1994)."Globalisation or glocalisation?" The Journal of International Communication, 1:1, 33-52, DOI: 10.1080/13216597.1994.9751780
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